di Maurizio Di Bonifacio. Relazione Conclusiva sul Corso di Formazione
in Psicologia del Corpo Nelle Arti Marziali I.T.P.C 1°-2°-3° livello
E’ con piacere che colgo l’occasione di elaborare un argomento che mi sta a cuore, in qualità di istruttore di Arti marziali e di operatore nell’ambito della disciplina fisica, della cura del corpo e nella ricerca dell’equilibrio psicofisico. L’importanza della “struttura” (Grounding) nell’Arte marziale. Da anni impegnato nella ricerca e nella pratica, ho avuto modo di godere di diverse esperienze, non solo marziali nel senso stretto del termine, ma anche in quelle discipline meditative, di concentrazione e di lavoro energetico che, come complemento all’espressione esterna delle arti da combattimento, formano la “parte interna” di una unità autonoma, complessa e versatile, quale dovrebbe essere quella di un’artista marziale. Per struttura si intende in breve la capacità di “legare” i vari segmenti del corpo in un assetto equilibrato e armonico, capace di reagire alla forza di gravità senza essere schiacciato. Ancorato bene a terra per mezzo dei piedi, si inizia quello che in Bioenergetica si chiama “radicamento” a terra, creando al contempo un effetto rimbalzo e di spinta verso l’alto. Come dicono i Maestri di CHI KUNG (potenziamento dell’energia interna o lavoro sull’energia interna): collegare il polo positivo (il cielo) con il polo negativo (la terra). E’ in quello spazio che l’uomo realizza la propria via, generando quella tensione salutare che carica il corpo di energia fisica e psichica, il Grounding appunto, intraducibile in italiano, riunisce i concetti di “essere con i piedi per terra” e “imparare bene”. Non di meno il rapporto con l’aria che un individuo ha nel corso della sua vita (cioè la respirazione) è determinante sia per il potenziale energetico personale, sia per il modo di gestire la struttura di tutto il corpo; anzi il respiro è un parte importantissima ed imprescindibile della struttura stessa. Tutto il sapere apparentemente occulto delle scuole tradizionali e degli “antichiMaestri orientali”, volto a creare un allievo capace di portare energia nel pugno o di canalizzare la propria energia interna attraverso movimenti del corpo, non è stato ed è altro che un lavoro strutturale, che grazie a studiosi come Raich e poi Lowen, si condensa in una entità scientifica che con il nome di Bioenergetica tenta e con successo di analizzare, classificare e spiegare l’energia globale di un essere vivente (l’uomo in particolare) con la sua valenza energetica e le sue attitudini. Ciò che per centinaia di anni è stato un lavoro empirico legato più all’intuizione che all’analisi scientifica, dove filosofia, religione e misticismo, non poco hanno contribuito a complicare e mascherare (sicuramente per nascondere ai più la conoscenza del “potere interno”), lo ritroviamo ben organizzato, semplice sia pure nella sua complessità ed applicabile su chiunque e da chiunque, depurato di quegli orpelli mistici legati alla filosofia orientale. Un’analisi scientifica che con il compito di intervenire sulle dinamiche psichiche di un individuo, si accosta in modo impressionante alla concezione orientale dell’energia interna (il Ch’i o Prana o Ki) fino ad identificare nel concetto di ORGONE, l’elemento unitario minimo di energia vitale, presente in tutto l’universo e usando un’espressione della fisica moderna (anche essa sorprendentemente vicina alle antiche teorie filosofiche orientali), potremmo definire “quanto di energia……vitale”. Il pensiero filosofico-scientifico orientale, fondato sul concetto dell’energia universale (Ch’i Yu) che pervade tutto ed il cui movimento si realizza per effetto della tensione generata dagli opposti complementari YIN-YANG, come coppia di elementi contrari ed interdipendenti che si attraggono, respingono, combattono e sostengono reciprocamente, rivela come tutto ciò che ci circonda e noi stessi siamo legati da una “macrostruttura” e che ogni elemento di questo universo ne ha una sua intima che interagisce con il “tutto”. Per contro il pensiero scientifico occidentale, caratterizzato dalla necessità di analizzare, sperimentare e verificare ciò che ci circonda, scopre vere le intuizioni degli “antichi saggi dell’oriente” e organizzandole in studi razionali ne rivela l’importanza e l’efficacia pratica sia in campo medico che in altri, come quello marziale che è l’argomento che ora ci interessa. Per ciò che concerne il lavoro marziale, nell’ambito del combattimento e di una corretta pratica, gestire in modo adeguato la struttura, gioverà al controllo emotivo in quanto una maggiore consapevolezza di sé porta senz’altro ad avere sicurezza, non fosse altro che per una maggiore fiducia nelle proprie capacità. Il controllo sul piano emotivo aprirà la strada al controllo psicofisico e della paura, migliorando l’assetto di tutto il corpo e quindi anche delle capacità coordinative, mai complete, specialmente in una situazione di stress come quella del combattimento. L’aumento della stabilità e dell’equilibrio daranno poi modo di utilizzare al meglio l’energia di tutto il corpo, agendo sul controllo del respiro (in stretto legame con il piano emotivo) e sull’aumento della forza sia resistente che esplosiva. Tutti questi elementi costruiranno un’atleta che potrà sfruttare al meglio le proprie capacità fisiche, le propensioni tecniche e la tenuta psicologica che è fondamentale in un confronto marziale. Senza per altro indagare su se stessi in un rapporto normale-anormale, tipico di un’analisi Bioenergetica, possiamo senz’altro sfruttarne i principi per agire sullo sviluppo delle potenzialità umane, non solo nel contesto marziale, ma nella vita di tutti i giorni, fino ad arrivare al piacere di esprimere se stessi. Detto questo è interessante analizzare un aspetto della bioenergetica, che in un confronto marziale può risultare molto utile: la capacità di interpretare le caratteristiche energetiche dell’avversario, analizzando il suo sguardo, il portamento ed il modo di muoversi. Eseguire cioè una indagine sia pure sommaria e veloce, nel contesto del combattimento, per capirne i punti deboli, caratteriali e tecnici, individuarne i punti forti per essere sempre preparati sia in attacco che in difesa. Certo questo è un lavoro che “scatta” automatico ma più o meno inconscio nel confronto con un altro e non solo nel combattimento; è chiaro invece che avere le basi tecniche per interpretare il linguaggio del corpo ed allenarsi anche in questo, può essere sicuramente un vantaggio per un’artista marziale. Quest’analisi eseguita in primo luogo su se stessi per capirsi e correggere il proprio assetto energetico, potrebbe poi essere sfruttata per cercare di “mascherare” la propria vera struttura al fine di mostrare un’immagine falsata all’avversario e quindi aumentare il vantaggio strategico. Ecco allora che sfruttare alcuni principi della Bioenergetica nel combattimento, dà la possibilità di ampliare le capacità artistiche-marziali, le quali ovviamente non si riconoscono solamente nel combattimento, in quanto non è solo nell’agonismo che si soddisfa il bisogno di affermazione e di autorealizzazione, ma principalmente nello sfidare se stessi e le paure che ci inibiscono. Canalizzare la nostra energia in modo creativo per crescere ed essere in contatto con la realtà del nostro corpo, che poi è la condizione necessaria per sentirsi una persona in contatto con a realtà della vita. Ed è su questo versante che la Bioenergetica trova la sua più ampia possibilità di espressione, con l’intento di ricreare il giusto rapporto psicofisico, troppe volte squilibrato dalle pressioni esterne che costringono il corpo in forme e posture innaturali, la quali riflettono il disagio di cui si è afflitti. Come se fosse una divisa creata in parte per protezione e corazza, in parte per giustificare l’incapacità di far valere il diritto di esistere, essere, amare.
Maurizio Di Bonifacio
Relazione Conclusiva sul Corso di Formazione in Psicologia del Corpo Nelle Arti Marziali I.T.P.C Secondo livello
Roma, 9 Giugno 2000
Nel mio primo lavoro ho parlato dell’importanza del radicamento, del principio fondamentale di legare insieme i vari segmenti del corpo e del respiro, vera chiave di volta di un assetto energetico, dove equilibrio ed armonia, formano la struttura posturale di base per far fiorire e crescere una sana identità psicofisica, capace di vivere ed interagire con il mondo circostante. Ma cosa avviene dentro di noi quando, abbandonando una postura statica, ci muoviamo, parliamo, interagiamo con gli altri entrandoci in contatto e a diverse distanze? E’ necessario, a mio avviso, forse condizionato dal fatto che sono un’artista marziale, riprendere il concetto di “Grounding” e il lavoro svolto dall’apparato respiratorio, che sappiamo bene non essere solo quello di fornire il “combustibile” necessario ai processi metabolici di ossido riduzione per la produzione di energia necessaria a farci muovere. Radicamento a terra e legare insieme i segmenti del corpo, sono due dei molteplici aspetti di una corretta tenuta energetica, che penso sia fondamentale imparare a gestire nel movimento. Questo significa avere la capacità di sentire il proprio assetto fisico nella sua globalità, pienamente consci del proprio equilibrio e consapevoli della dislocazione delle varie parti del corpo (braccia, gambe, tronco, mani, piedi, testa, direzioni, equilibrio, ecc.) nello spazio tridimensionale e nel tempo, proprio perché stiamo analizzando il corpo in movimento. Allora non parlerò più di “Grounding” inteso in forma statica, se non per un approccio iniziale al concetto di radicarsi a terra, ma di “radicamento dinamico” al mondo che ci circonda, non tanto alla terra intesa come entità fisica che si trova sotto i nostri piedi. Il radicamento si realizza nello spazio e nel tempo, si inscrive nel movimento globale dell’universo, perpetrando quell’antico concetto della “nonazione” o WU WEI, che altro non è se non il muoversi senza disturbare quelle armonie cosmiche che si succedono incessantemente dall’inizio del tempo stesso. Analizzare ciò non può essere fatto che in forma dinamica, per capire che il segreto sta nel fluire. Nella fluidità di passaggio da un’azione all’altra senza soluzione di continuità, dove alla fine di un movimento si colloca l’inizio del successivo, sta il concetto di radicamento dinamico, il cui principio primario è essere “circolare”. E il respiro? Che cosa è e come si colloca all’interno di questo dinamismo armonico ora descritto? Da un punto di vista meccanico la respirazione, complessa in quanto richiede un lavoro di sincronizzazione di numerosi distretti muscolo-scheletrici, interagisce con i diversi sistemi fisiologici, ma è interessante notare come sia direttamente implicata nei processi psico-emozionali. Infatti è la respirazione il primo correlato fisiologico che viene a modificarsi in una qualsiasi condizione di attivazione emozionale (paura, rabbia, felicità, tristezza, rilassamento, ecc.); essa influenzerà direttamente poi l’apparato cardiovascolare e insieme allo stimolo emozionale farà si che il corpo produca quegli elementi necessari ad ampliare al massimo le facoltà fisiche (sia per l’attacco, che per la difesa o la fuga), oppure a generare uno stato di rilassamento e di calma. Corpo e respiro quindi non disgiunti, che integrati in un rapporto di reciproca interdipendenza e di bilanciamento che reagisce agli stimoli esterni, ribadisce il concetto di radicamento dinamico. Il respiro ne è quindi una parte imprescindibile; del resto, più dell’alimentazione, è quell’elemento che permette la comunicazione tra il macrocosmo ed il microcosmo; è il momento continuo di “scambio-assimilazione-assorbimento-restituzione” delle energie che ci circondano, a cui bene si adatta il principio della “circolarità” del radicamento dinamico. Mi rendo conto di dissertare con una modalità che vuole esplicare una teoria, sia pure personale, che mi viene dalla pratica e dall’intuizione, alla luce delle esperienze acquisite nel corso di anni di studio e di ricerca nel Kung Fu. Voglio spingermi però oltre e completare questa mia visione parlando del TIMING, termine spesso usato nelle arti da combattimento e che sta a significare “scelta del tempo” per l’esecuzione di un colpo, per uno spostamento, per un passaggio, per un’azione di attacco o difesa, di finta, di rimessa, ecc.; è un concetto apparentemente tecnico ed elemento di studio e allenamento per formare un’artista marziale completo. Per me il timing è Ritmo, a prescindere da ciò che si sta facendo è Ritmo, nasce con l’universo e con l’inizio dello scorrere del tempo; tutto ciò che forma la realtà in cui viviamo sottende a questo Ritmo. All’esterno: parlare, suonare, correre, combattere, scrivere, pensare, ecc. All’interno: respirare, il battito cardiaco, i ritmi circadiani, il ciclo di crescita dall’infanzia all’età adulta, ecc. Nel macrocosmo: la successione giorno-notte, le fasi lunari, le maree, le orbite dei pianeti e dei loro satelliti, ecc. Anche se l’universo in generale tende all’entropia, il ritorno al caos dal caos stesso non è forse un ciclo e in quanto tale un ritmo? Tutto insomma è nel ritmo naturale di progressione temporale di questo universo, è come una fitta rete invisibile ma onnipresente che “lega il tutto”……… è l’elemento che “struttura” tutto il creato. Quando si crea una dissonanza dal ritmo o quando ci si discosta da esso, allora nasce una distorsione e in seguito un movimento patologico. È il ritmo che dà il via alla struttura dell’universo e colloca tutto nel giusto assetto: agire in assonanza con questo vuol dire allora essere nel WU WEI, nell’agire senza disturbarne l’armonia. Chi capisce ciò, non certo ad un livello dialettico, ma intimamente, nel profondo, dopo aver trovato e riconosciuto su se stesso quest’armonia, potrà essere veramente libero di vivere la propria identità psicofisica; non importa cosa faccia nella vita, se sia scrittore, contadino, artista marziale, uomo di mare o quant’altro, sarà un Uomo. A ciò devono essere arrivati quei famosi maestri che con le loro massime apparentemente arcane affermavano: “sii in armonia con l’universo e non avrai mai bisogno di combattere; ma quand’anche ciò sarà inevitabile, questa armonia sia la tua forza…….. nessuno potrà soverchiarla perché si troverà contro l’universo stesso”. Questa è la visione che stimola il mio lavoro di ricerca, nella quale si colloca anche il ruolo del leader, del formatore e dell’istruttore (i tre elementi essenziali del mio status marziale nella scuola che dirigo), con tutte le problematiche e i pericoli a cui si può andare incontro. Ci sono dei concetti chiave che debbono essere condivisi per forza se si vuole essere un leader e contemporaneamente formatore o istruttore marziale. Quando si insegna qualcosa a qualcuno si hanno in pieno la responsabilità di una corretta divulgazione, dell’impostazione e della caratteristica della lezione. Considerare le motivazioni dei vari allievi, che possono essere agonistiche o di studio tradizionale e per i quali si deve necessariamente operare una diversificazione didattica. Stare ed Osservarsi nella relazione con gli altri, avere la capacità di sapersi adattare alle esigenze fisiche e psichiche degli allievi senza peraltro scavalcare quelle che sono le regole che disciplinano una scuola marziale, l’importanza del “farsi sentire”, essere sempre presenti ma non in modo condizionante e giudicare solo nel contesto in cui si sta operando senza disconfermare tutta la persona, tenere ben presenti quelli che sono i meccanismi psicologici dell’apprendimento con le difficoltà che l’apprendere stesso comporta, ammissione del limite cognitivo, superamento della paura del giudizio e del “salto nel vuoto” che un allievo deve fare per lanciarsi in qualcosa che non conosce e che l’istruttore deve saper far affrontare, significa infondere sicurezza, determinazione, sacrificio e fiducia. Questi elementi che caratterizzano il leader e l’istruttore marziale, insieme al setting di appartenenza, composto di quegli attributi tradizionali, come l’altare della scuola, le divise di allenamento, il saluto, la condivisione delle regole ed il significato intrinseco di “appartenenza” ad un gruppo che opera in sinergia, formano la struttura con la quale operare, certi di essere nel “Ritmo naturale delle cose”.
Maurizio Di Bonifacio
Relazione Conclusiva sul Corso di Formazione in Psicologia del Corpo Nelle Arti Marziali I.T.P.C Terzo livello
Roma, 12 Gennaio 2001
Nel contesto del III livello di questo corso, mi sembra opportuno dare concretezza pratica ed essenziale a quei concetti di Grounding, ritmo, e radicamento che nel “reale dell’agonismo” molte volte vengono a perdersi, soffocati da vizi strutturali, da errati punti di vista e appannati da istinti egoistici e narcisisti non solo da parte dell’atleta, ma anche e troppo spesso del Coach e più ancora del Team che si trova per ovvi motivi a scendere a compromessi con ingaggi, sponsor e regolamenti di gara. E’ vero che le doti di un’atleta si valutano sul piano tecnico e che non si prescinde da quelle psicologiche, che debbono essere corredate a sufficienza da capacità aggressiva, spirito agonistico, narcisismo e di un istinto a prevalere, a vincere a conquistare, ed è lì che il lavoro dell’allenatore in collaborazione con lo psicologo deve fare leva. Ma è anche vero che la maggior parte delle volte si perde di vista una qualità essenziale, una caratteristica che si ottiene con il sacrificio, non ci si nasce, ma si conquista, non fa parte del corredo psichico ma si impara sulla propria pelle. Se ne è parlato, ma in modo marginale, come fosse scontato che una dote così importante, quella che forma il pilastro su cui erigere poi tutte le strutture psicofisiche, sia conosciuta e assimilata fino in fondo. E’ l’umiltà. Certo l’aggressività è una dote da elaborare e canalizzare nella giusta direzione affinché sia sana e sfruttata con profitto. L’assertività darà una base solida all’espressione energetica in modo chiaro e coordinato; sano egoismo per una affermazione di se stessi è sicuramente positivo, ma come si può, mi domando, affrontare una gara o, scendendo nello specifico, un combattimento, mettersi in gioco con tutto il proprio essere se non si conosce il valore e la forza dell’umiltà? Come si può vincere un altro se prima non si vince contro l’illusione di potenza che può darci una apparente “ottima tenuta psichica”. Se pur si vince in combattimento, in realtà si perde se non si potrà resistere agli attacchi dell’EGO, sempre pronto a soffocare l’umiltà che serve a mantenerci “radicati”, “in struttura”. E se si perde? Come si potrà accettare veramente, dentro se stessi la sconfitta, con onore ed essere sempre in equilibrio, “con i piedi per terra” se non si è umili. Vittoria o sconfitta non sono altro che espressioni esterne di un rapporto tecnico a prescindere dal tipo di competizione. Ma se è l’umiltà il comune denominatore, allora nasce qualcosa di straordinario, nasce un movimento, un cerchio, una energia che arricchisce chi vi partecipa…… nasce un “ritmo” che si iscrive nel corso naturale della vita. Utopia? No non sono d’accordo, penso che questa umiltà sia necessaria, al di là del risultato prefissato, dell’obbiettivo da raggiungere, altrimenti ci si fronteggia caricati solo di un istinto di prevaricazione, di egoistico istinto di sottomettere con la forza bruta e la pressione psicologica qualcun altro che sta di fronte a noi…….non c’è rispetto, quindi anche se si perde si vince. Cosa si perde? “il rispetto” appunto, altro elemento che per me rientra in un contesto di equilibrio globale delle cose. Non è solo un problema legato all’atleta che affronta una competizione, anche l’allenatore rientra in questo quadro in quanto colui che costruisce l’allievo, il quale a sua volta dovrà poi dimostrare cosa ha appreso e a metterlo in pratica. Troppo spesso si incontrano allenatori, istruttori, maestri che altro non sono che dei “fomentatori”, amplificatori distorti di quelle caratteristiche che formano un’agonista che “DEVE” vincere, purtroppo……deve; difficile che si parli di umiltà e rispetto in un training, invece si usa superbia e presunzione. Scusate, non è che non sono d’accordo con quanto si è detto in questo III livello, forse è che vedo tutto l’argomento da un punto di vista diverso, valuto il tutto da una prospettiva differente ma è quello che insegno ai miei allievi. Lo so che c’è chi è più adatto al combattimento per sua natura e che va coltivato, ma non me la sento di sfruttare la rabbia di una sconfitta per ricaricare lo psicosoma di un allievo ormai scarico e deluso per il risultato negativo, se non in quegli istanti che seguono all’incontro. Non me la sento di stare dietro all’allievo “bravo” per cercare di contenere l’euforia della vittoria se non con un secco rimprovero. Non me la sento di “cullare” gli allievi, essi per me devono stare in piedi da soli perché è contro di loro che stanno combattendo, ogni giorno ed il mio impegno nei loro confronti è fare leva su due elementi essenziali: RISPETTO e UMILTA’. Forse perderò una larga fetta di utenti ai quali interessa di più l’esteriorità del confronto, ma senza questi elementi, che chiudono il cerchio della mia visione circa le arti marziali ed il rapporto tra corpo e psiche, per me non vale la pena di insegnare Arti Marziali a nessuno.